Su questi argomenti regnano sovrane le regole di mercato.
In tutti (o quasi) i settori merceologici la dilazione di pagamento che il fornitore concede al proprio cliente ha un corrispondente onere, che può essere esplicitato sotto forma di addebito di interessi o implicitato sotto forma di minor sconto o margine, come spesso avviene nel mondo dei farmaci.
Il tasso di interesse del 4,5% annuo corrisponde a un onere di dilazione mensile dello 0,37%, tutto sommato neppure così caro!
Molti grossisti, anche di rilevanza internazionale, praticano frequentemente lo 0,5% mensile che ovviamente corrisponde niente di meno che a un 6% (e più) annuo, e infatti le cooperative di solito sono meno “esose”.
Naturalmente, le aziende lucrano su questa gestione finanziaria perché quasi sempre riescono a “pagare” il denaro meno di quanto lo “rivendono”; così facendo chiudono spesso in utile anche bilanci che, a livello di risultato operativo, evidenzierebbero una perdita.
Ma questa è una vecchia storia, nata nel mondo della grande distribuzione organizzata alcuni decenni fa, nell’epoca cioè in cui i tassi di interesse viaggiavano a due cifre: i supermercati e gli ipermercati abbassavano i prezzi di vendita degli articoli, riducendo così, o addirittura azzerando, i loro margini allo scopo di aumentare i fatturati (che venivano incassati contanti dai consumatori) e “rivendere” pertanto il denaro alle banche a un buon tasso di interesse, sfruttando la dilazione di pagamento che si erano fatti concedere dai fornitori, in virtù della loro posizione dominante di mercato.
Tutto legittimo, anche se discutibile.
(roberto santori)