L’art. 2598 del cod. civ. configura la responsabilità per atti di concorrenza sleale in chiunque: “2) diffonde notizie e apprezzamenti su prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinare il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o delle imprese di un concorrente; 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.
Il successivo art. 2560 prevede inoltre che, se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l’autore è tenuto al risarcimento dei danni.
L’Avv. Duchi nell’articolo da Lei citato individua condivisibilmente nella violazione ai principi della deontologia professionale (accaparramento di ricette, pubblicità sleale, sconti indiscriminati o a categorie predeterminate) il presupposto, o uno dei presupposti, per invocare l’intervento del giudice civile che inibisca la continuazione degli atti di concorrenza sleale e, se del caso, valuti successivamente i fondamenti per la condanna dell’autore dell’illecito al risarcimento dei danni.
Il problema nel concreto sta tuttavia nella difficoltà di provare i fatti e anche, molto spesso, di quantificare i danni, specie quelli connessi al c.d. lucro cessante (cioè al mancato guadagno), e dunque in pratica un giudizio comporterebbe fatalmente un’istruttoria generalmente complessa e dai tempi ineludibilmente lunghi, con oneri e spese che andrebbero evidentemente anticipate dalla parte attrice, ferma per di più l’alea che inerisce a qualsiasi procedimento giudiziario.
Lo scarso numero di cause del genere pendenti nei nostri tribunali, del resto, conferma ampiamente tutto questo.
Ciò nondimeno Lei, in presenza di comportamenti macroscopicamente scorretti, potrà/dovrà senz’altro adire la competente autorità giudiziaria, magari sfruttando – ove la richiesta di risarcimento del danno sia di importo inferiore ad € 50.000 – l’obbligatoria preventiva “negoziazione assistita” (introdotta da pochissimo tempo nel nostro ordinamento) per tentare di far cessare stragiudizialmente i comportamenti (anche) professionalmente censurabili e individuare in via transattiva una somma, anche se puramente simbolica, da risarcire.
Resta infine la strada della denuncia della violazione dei principi deontologici all’ordine provinciale dei farmacisti perché avvii formalmente un procedimento disciplinare, e questo nei fatti può in realtà essere l’incipit in grado di caratterizzare efficacemente la gran parte di tali vicende, perché va da sé che un intervento fermo e generalizzato degli ordini (purtroppo abbastanza pigri, come l’esperienza insegna) può produrre effetti molto più dissuasivi di un ricorso al giudice.